L'attualismo di Giovanni Gentile è una filosofia idealistica della
prassi, da Lui stesso definita, ne La riforma della dialettica
hegeliana, in termini di spiritualismo assoluto: la più alta e potente
espressione dell’idealismo immanentistico moderno, che innalza la
razionalità universale dell’uomo, e nell’uomo, ad assoluto demiurgo
della vita etica e della storia universale.
Potremmo facilmente parlarne come la più estrema forma di idealismo, e nel contempo come di un umanesimo integrale, che divinizza l’uomo e il suo mondo, lo intende erigere, con un’istanza volitiva estrema desunta dall’imperativo categorico fichtiano di Jena, ad unico Artefice dei propri destini individuali, sociali e storici.
Questa filosofia idealistica della prassi nasce dunque sul terreno di una lettura in senso accentuatamente fichtiano dell’idealismo di Hegel, nel solco già tracciato dalla Sinistra hegeliana e dal giovane Marx. Come sottolineava Lukàcs, gli autori della Sinistra hegeliana, intrecciando Hegel con Fichte, intendevano dinamizzarne la concezione dell’assoluto e della storia, sino a ricavare dalla dialettica hegeliana, con piena coerenza teorica, una visione dell’uomo come prassi cosciente, attività auto formativa e formativa, creativa di sé e del proprio mondo, che è propria della filosofia fichtiana di Jena.
Non è dunque casuale che il primo scritto, con il quale Gentile si presenta al grande pubblico, sia proprio un confronto con Marx e con il Materialismo storico. Ivi Gentile rivendica la centralità complessiva del concetto di “prassi” per la filosofia e il carattere di “filosofia della prassi” del pensiero del primo Marx, in base alle Tesi su Feuerbach del 1844…La conoscenza come prassi è, ad esempio, al centro della critica di Vico a Cartesio. Se la prassi vichiana era “operare della mente dell’uomo”, in Marx è attività lavorativa che parte dai bisogni materiali ed ha una dimensione sociale…la conoscenza non è mai data, è un processo spirituale di produzione e di riproduzione, e lo spirito umano è sempre vigile, attivo, creativo in ogni atto teoretico e la verità non è mai un dato statico.
In questo processo produttivo, soggetto e oggetto sono in mutua relazione: l’autoformazione del soggetto è la formazione dell’oggetto e la conoscenza è sviluppo continuo, radicato nel fare del soggetto “che forma se stesso, formando l’oggetto”. che può vagare isolatamente nei boschi, e la società è negata nella sua necessità, ridotta a fatto accidentale: nasce da un contratto sociale, stipulato dalla massa degli individui empirici isolati, che potrebbero anche decidere il contrario o ritornare sulla loro decisione…
La prassi e l’uomo come prassi sono la completa indipendenza della coscienza razionale nel suo farsi, decidersi e decidere, costruirsi e costruire: deve prescindere ed astrarre da ogni condizionamento esteriore, trasmesso dalla sensibilità, sia esso condizionamento dell’impulso materiale edonistico, sia esso condizionamento dell’ambiente socio culturale.
In ciò è evidente il riferimento alla versione attivistica e demiurgica dell’imperativo categorico kantiano, presente nello Fichte delle opere jenesi: “io devo agire, affinché io diventi libero”. La prassi non può dunque essere minimamente dedotta dalla natura esteriore e dalle sue leggi necessarie, è espressione immanente di un principio ontologicamente superiore, come scritto chiaramente da J Evola, nelle opere filosofiche del 1924-1925, i Saggi sull’idealismo magico, la Teoria e Fenomenologia dell’individuo assoluto.
Nei Saggi, egli scrive che “l’Io è...l’etere infinito che sottende ogni determinazione”; non può mai né essere determinato né essere compreso dall’universo, ma anzi “comprende questo dentro di sé”. Ancor più chiaramente, in alcuni passi della Fenomenologia si afferma la più assoluta indipendenza di ogni atto di volontà, e dunque di azione e costruzione umana rispetto a ogni legge della natura. Il telos del mio agire non è in nessun modo comandato dal determinismo naturale, al contrario “tutto il mondo è ad ogni momento appeso al mio volere e al mio agire”. Non solo l’azione della mia coscienza non è comandata da alcuna legge naturale, ma sono deliberazione della volontà e atto cosciente a farle operare: sono io che in questo momento decido di scrivere e scrivo, utilizzando a comando leggi chimiche e meccaniche dei miei organi cerebrali e manuali, in base ad una forza superiore in me operante, già citata come “etere”, che comanda l’impulso e la natura, piega a sé ogni fattore ambientale: l’uomo è prassi in quanto spirito, in quanto non si fa mai trascinare da nulla di esterno alla propria volontà… Il pensare è la prassi, precedentemente analizzata.
Il pensiero è spirito, un fare cosciente e voluto: un’attività creativa in perenne auto svolgimento, costantemente creativa e unitaria; il pensiero fa, costruisce, mantenendo in sé ogni sua espressione e creazione, creandone continuamente altre, dunque mantenendosi di continuo in unità con sé e in costante attività. Questo pensiero-prassi, che pensando costruisce, che non consente ad alcuna sua determinatezza di uscire dal cerchio della sua unità logico-dinamica, è definito auto concetto o atto puro, e ricorda la vorticosità dell’Io puro di Fichte: tutto poneva, tutto tratteneva in sé, nulla traluceva all’esterno di sé, il cosmo era una pura costruzione logico trascendentale, come lo è per Gentile. Un principio talmente compatto e in auto movimento che rischia di sfuggire ad una vera comprensione concettuale –come evidenzierà proprio Evola- e soprattutto ad una esposizione chiara, esaustiva, didatticamente efficace.
Il principio del pensiero come atto puro e auto concetto, fondamento, cuore pulsante, essenza dinamica di tutto l’idealismo gentiliano della maturità, è già chiaramente esposto nella “Prolusione” sul il concetto di storia della filosofia letta il 10 gennaio 1907 all’Università di Palermo; “Prolusione” inserita ne La riforma della dialettica hegeliano del 1913, ove tutte le questioni ad esso inerenti sono svolte logicamente e storicamente. […] Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, la cui prima edizione risale al 1916, Gentile precisa i caratteri del suo attualismo, operando la nota distinzione fra Io trascendentale e Io empirico. Il pensiero in atto è l’Io trascendentale, unitario e universale; “l’unità infinita dello spirito”, distinto dall’Io empirico, dalla concretezza della singola persona in carne ed ossa, scissa in ragione e sensibilità, contrapposta all’oggettività percepita empiricamente.
La distinzione non sfocia nella separazione ontologica e nella trascendenza del platonismo: l’Io trascendentale è un principio di assoluta spiritualità immanente agli uomini, che li sottrae ad ogni condizionamento della datità esteriore e li erige a soggetti razionali liberi, nel senso già precisato. Di fatto l’uomo reale, l’individuo vive in questo equilibrio dinamico fra Io trascendentale ed Io empirico, come l’Io concreto e finito del terzo principio della Dottrina della scienza fichtiana del 1794.
Torneremo sulla questione. […] L’unità dello spirito, quale Io trascendentale, è certamente immoltiplicabile ed infinita: “la vita, la realtà, la concretezza dell’attività spirituale è nell’unità; e non si ha la molteplicità se non uscendo dalla vita, e fissando le morte astrazioni risultanti dall’analisi”.
Ciò non significa che la natura e la molteplicità delle coscienze empiriche non esistano materialmente, ma che, quest’ultime, lasciate alle sollecitazioni della sensibilità e della datità esteriore, al di fuori di ogni sforzo pensante, non hanno un significato spirituale, e dunque umano. Un degrado della coscienza alla vita animale su cui avrebbe potuto convergere anche Marx, nei Manoscritti economico filosofici del 1844.[…]
L’idealismo gentiliano di questa fase, prima della svolta fascista e dell’incontro di Gentile con le tematiche dello Stato Corporativo del Lavoro, è un idealismo morale e pedagogico. Nessun dubbio che in esso prevalga il principio dell’unità assoluta e assolutamente in atto, l’Io trascendentale sull’Io empirico, una legge morale che chiede alle persone una piena uniformità di vita razionale che culmina nella filosofia come atto educativo. Ma l’uniformità all’unità dell’atto è ancora marginale rispetto al piano politico e s’identifica pienamente con la libertà razionale della coscienza, unendo le istanze del razionalismo etico kantiano con quelle dell’attivismo volontaristico fichtiano. Emblematica la seguente citazione: “la personalità, ogni determinata personalità, non si può pensare che si costituisca se non in virtù delle sue proprie forze, le quali assommano nel pensiero.”
L’unità dell’atto non è proiettata verso una Volksgemeinschaft organicistica e romantica, ma verso l’autocostrizione razionale di sé, in sé e in ogni momento della propria vita. Condizione spirituale mai data una volta per tutte, mai cristallizzata in un dato positivo immutabile, ma da costruirsi costantemente nella vita della coscienza personale: un suo “farsi” “spirito” che fa oscillare quest’ultimo fra un piano di immanenza concreta e operante e un piano trascendentale di idealità regolativa kantiana
Con queste caratterizzazioni fichtiane, l’unità dell’atto, o spirito, o auto concetto, o Io trascendentale è principio immanente la molteplicità delle coscienze, ove si concreta e manifesta come l’Assoluto di Hegel, ed è idealità regolativa kantiana; tale e tanta è la sua assolutezza dinamica, razionale e unitaria, da costituire sempre una conquista umana, giorno per giorno, attimo per attimo. […]
L'Io trascendentale è legge immanente alle coscienze empiriche e le deve destare ad una costante attività e autocostrizione razionale, che pretende di annullare ogni elemento non egotico, istinti, bisogni materiali, interessi privati.
La libertà dell’Io fichtiano non conosce mediazioni con la sensibilità; il suo “sforzo” egotico è privo di spontaneità e di momenti di quiete.
A livello etico e politico può significare un ritorno alla libertà antica come assoluta Virtù, assoluta dedizione patriottica, difficilmente raggiungibile da tutti coloro che compongono la comunità nazionale. Ricade nell’utopia giacobina più nobile ma anche più radicale e antistorica. Gentile troverà una soluzione a queste difficoltà e un maggiore equilibrio, sul piano etico, fra individualità e totalità, guardando allo Stato etico idealistico come ad un’idealità regolativa da conseguire, in un continuo sforzo di volontà collettiva e organizzata, e sviluppando le tematiche concrete del Corporativismo.
Su questa linea giungerà a dare veste compiuta alle teorie politiche fasciste nell’ultima sua grande e dimenticata opera, Genesi e struttura della società. […]
Gentile torna sui caratteri del suo idealismo “attuale” o “attualismo” in uno scritto del 1926. L’anno dopo apparirà la Dottrina del fascismo.
Siamo dunque nel periodo in cui egli comincia a misurarsi con le questioni politiche e con il Corporativismo. Se ne vedono i risultati fecondi anche sul piano teoretico, perché, proprio nello scritto in questione, egli passa da un idealismo pedagogico ed elitario, ad un idealismo umanistico e sociale, rivalutando ogni attività lavorativa e produttiva.
A questo punto, non solo la cultura e l’attività teoretico educativa sono prassi e manifestazioni del pensiero in atto, ma la totalità dell’agire umano, dal lavoro contadino all’insegnamento liceale e accademico della storia della filosofia.
La totalità dell’agire umano è “lavoro” nelle sue varie espressioni e categorie, tutte quante degne di essere organizzate e tutelate nel quadro unitario dello Stato Nazionale del Lavoro, come comprese Benito Mussolini, sin dal 1918. [..]
L’idealismo attuale diviene umanesimo integrale: quando si afferma non solo che tutto è pensiero, ma che il pensiero è permanentemente in atto e ogni atto è pensiero (cioè Io trascendentale, spirito, autoconcetto) significa porre alla base della realtà “quello che fa l’uomo…persona, soggetto, autocoscienza…iniziatore assoluto.” Non è casuale lo sforzo storico e critico, costante in Gentile, teso a trovare le radici più lontane dell’idealismo non in Germania, ma in Italia, con la filosofia umanistica e rinascimentale e il pensiero di Giordano Bruno.
L’idealismo attuale è umanesimo integrale, perché valorizza, in questa fase, sia il lavoro materiale sia l’attività culturale, sia i lavoratori sia gli uomini colti, tutti “lavoratori del braccio e delle mente”, secondo la feconda asserzione mussoliniana: è umanesimo del lavoro, che si apre alla questione sociale con il corporativismo di Bottai, di Spirito, il Sindacalismo Nazionale di Rossoni, ed è formazione delle aristocrazie del pensiero che richiama la grande Riforma della scuola e il Liceo Classico:
“La vita dell’uomo… è affermazione di libertà. Che infatti ogni uomo si sforza di conquistare, sia che con la zappa…s’adoperi a trasformare il suolo in docile strumento di soddisfazione de’ propri bisogni, sia che, con l’analisi districando le difficoltà d’un problema speculativo che gl’incomba molesto sull’animo, cerchi nella soluzione di esso la liberazione del suo spirito dal disagio del problema, che gli impedisce l’intelligenza del mondo in cui egli deve vivere.”
Con Hegel, nonostante i limiti che Gentile attribuisce alla sua nozione di eticità, l’idealismo scopre il carattere spirituale dello Stato.
Fichte rimaneva legato ad una visione contrattualistica e negativa dello Stato: era dedotto da una pluralità di individui originariamente indipendenti, nasceva da un loro patto sociale, rimaneva un limite rispetto alla manifestazione dello spirito nell’individuo e nel suo mondo morale. Hegel afferma la piena identità speculativa fra Stato e individuo […]
Lo Stato etico idealista è libertà concreta dell’individualità. Posta così la questione […] sembra facile vedere nella teoria politica gentiliana un totalitarismo dispotico, che appiattisce l’individuo sulle istituzione e nega ogni forma di libertà. Le cose non sono così semplici.
Sin dal 1925, anno di svolta del Fascismo e anno in cui matura la piena identità fra Gentile e Fascismo, il filosofo siciliano riflette con sempre maggiore profondità e precisione sui caratteri del totalitarismo fascista, sui rapporti fra “l’autorità dello Stato e la libertà dei cittadini”, sul problema del corporativismo.
Proprio nell’anno in questione, Gentile tiene una conferenza all’Università della Casa del Fascio di Bologna, sul tema “Libertà e Liberalismo”, ove intende precisare che lo Stato fascista è autentico Stato liberale, in quanto realizza in sé la concezione moderna della libertà come “spirito umano” che “assoggetta” a sé ogni esteriorità, proponendosi in qualità di Io fichtiano, o per essere più conforme alla terminologia attualista di un “farsi individuo”, di un tendere al piano trascendentale del pensiero permanentemente in atto. […] Solo su questo terreno può crescere quella umanità, contraddistinta da continua attività razionale, creativa e volitiva, da slanci per l’ideale, da coscienza dei propri doveri patriottici, proposta dall’imperativo categorico fichtiano e dall’idealismo mazziniano come autentica umanità emancipata.
Questa libertà dell’uomo di autocostruirsi razionalmente, di essere sempre demiurgo di sé e del proprio mondo in una intersoggettività nazionale, è vera libertà di pensiero: essere liberi di pensare non è certo essere liberi di esprimere e di fare tutto ciò che casualmente passa per la testa; in quanto ciò che passa casualmente per la testa nasce da una determinazione della esteriorità, non è coscienza pensante. Lo Stato fascista è autentico liberalismo perché promuove questa condizione di pensiero attivo in tutte le categorie sociali, per superare gli antagonismi di interesse che contraddistinguono lo Stato liberale.
Nelle Origini e dottrina del Fascismo, del 1927, Gentile approfondisce la riflessione sul rapporto autorità dello Stato e libertà dell’individuo, partendo dal netto rifiuto delle dottrine politiche dei nazionalisti.
Tali dottrine, partendo da un’idea naturalistica e positivista di nazione, come “territorio”, “stirpe”, “lingua”, “storia” – tutti elementi o puramente naturali o dati di fatto acquisiti meccanicamente dalle coscienze - favoriscono la nascita di uno Stato autoritario e aristocratico.
All’opposto lo Stato fascista, in quanto “conquista dello spirito”, “è Stato popolare, e in tal senso Stato democratico per eccellenza.” […]
Gentile riprende la concezione spirituale della Nazione di Mazzini e di Bertrando Spaventa: la Nazione è la coscienza che se ne ha; coscienza continua della propria appartenenza ad una comunità politica, che ha identità di territorio, di cultura, di destino storico; coscienza continua dei propri doveri patriottici, della necessità di subordinare gli egoismi particolari all’interesse pubblico.
Su queste basi la nazione non è un dato di fatto scontato, ma un’elaborazione del pensiero che deve ramificarsi in ogni anfratto della vita nazionale grazie ad un sistema educativo funzionante.
E lo Stato, se vuole veramente essere Stato nazionale e raccogliere il contributo di tutti gli italiani, deve consentire ai filosofi, agli uomini di cultura, di esprimersi in un’essenziale, costruttiva libertà di pensiero ed essere Stato educativo, che promuove costantemente la coscienza nazionale attraverso una scuola ben funzionante.
Ogni italiano è chiamato ad essere tale sapendo di esserlo, operando, a qualsiasi livello, come tale. L’italiano o il tedesco sono tali se la coscienza della loro italianità o della loro appartenenza germanica rimane viva e desta e ispira la loro azione: questa continua e vigile coscienza patriottica non può essere costruita artificialmente, attraverso operazioni eteronome rispetto alla ragione, o addirittura intenzionalmente rivolte ad agire sulla pura e semplice sfera emotiva, come le parate di regime organizzate da Achille Starace.
Per il rigoroso razionalismo fichtiano di Gentile, la coscienza patriottica esige lo stesso autonomo sforzo di pensiero autocostrittivo e autocostruttivo della coscienza morale. Essere italiani e vivere da italiani nasce dalla libertà interiore della coscienza, che sa una necessità feconda i propri doveri verso la Nazione e li vuole espletare.
E’ questo il “circolo infrangibile” fra “l’autorità dello Stato e la libertà dei cittadini” di cui scrive Gentile. Egli comprende sin dall’inizio che lo Stato nazionale e popolare esiste se i cittadini lo vogliono autonomamente creare. In caso contrario è una parata militare, un organismo di facciata che crolla con le prime difficoltà sul fronte greco albanese: “la libertà è solo nello Stato, e lo Stato è autorità; ma lo Stato non è un’astrazione, un ente disceso da cielo e campato in aria sulle teste dei cittadini”.
Lo Stato “è tutt’uno con la personalità del singolo, che deve però promuovere, cercare, riconoscere, sapendo che c’è in quanto si fa essere.”
Insomma lo Stato può essere autoritario e totalitario quanto si vuole, può organizzare tutte le parate possibili e immaginarie, accendere per attimo fantasie e speranze con le cartoline d’Africa, ma se non conquista e attiva la mente e i cuori dei cittadini non esiste; e per conquistarli e attivarli occorre promuoverne la crescita materiale e spirituale; economica, sociale e culturale. E su questo terreno entra in gioco il Corporativismo.
Lo Stato fascista è popolare e democratico, promuove la personalità del singolo, ne conquista la mente e il cuore, in quanto Stato corporativo del lavoro.
Prima di argomentare più dettagliatamente la questione del Corporativismo è necessario precisare due questioni strettamente correlate: primo, lo Stato etico gentiliano appare dedotto e giustificato in base alle legge morale; secondo, in tutti gli scritti politici, Gentile dà l’idea di considerarlo un’idealità regolativa, al pari della stessa coscienza morale. Coscienza morale e Stato etico non sono mai un acquisizione definitiva, né mai s’immedesimano in una realtà di fatto cristallizzata.
Del resto questa dinamicità assoluta dello spirito è implicita nell’idealismo gentiliano: come l’uomo reale vive in un costante equilibrio dinamico fra Io empirico e Io trascendentale, in un farsi costante demiurgo razionale di se stesso e del proprio mondo sociale, anche lo Stato fascista è un costante perfezionamento di sé verso l’ideale della piena eticità, cui si aggiungerà, dal 1931 al 1944, l’ideale della Corporazione proprietaria e della Socializzazione dei mezzi di produzione. Sono o non sono i comunisti, per l’ultimo Gentile, dei corporativismi impazienti?
In conclusione al capitolo finale, su “Stato e politica”, dei Fondamenti filosofici del diritto del 1937, si afferma che compito primario dello Stato è sollevare “l’individuo dalla sua empirica particolarità all’universalità essenziale che conferisce alla sua azione un valore morale e perciò politico, o meglio più intensamente morale e più energicamente politico.”
E’ chiaro che lo Stato si assume il compito di istituzionalizzare e generalizzare ad un intero popolo il rapporto pedagogico che deve innalzare le coscienze empiriche alla già definita libertà razionale dello “spirito”: la coscienza morale è anche la coscienza politica e patriottica del cittadino attivo di ogni categoria e classe sociale.
Uno Stato simile non può che avere il carattere di idealità regolativa della coscienza morale: scrive Gentile, in un articolo del 1932, su “individuo e Stato”, posto in appendice alla terza e ultima edizione dei Fondamenti filosofici del diritto:
“Quando l’idealista dice individuo = Stato non intende che sia un’identità immediata […] L’identità di cui si parla è essa stessa qualche cosa di reale in quanto si realizza. Il che vuol dire che lo Stato è sempre e non è mai quello Stato che deve essere; né ci potrà mai essere un giorno in cui, compiuto il processo, l’individuo si sia risolto completamente nello ; poiché quel giorno non vi sarebbe più individuo, ma non vi sarebbe neanche Stato.
PER NON SBAGLIARE, PERTANTO, BISOGNEREBBE PARLARE NON D’IDENTITA’, MA D’IDENTIFICAZIONE, CHE E’ RISOLUZIONE INFINITA DELL’INDIVIDUO NELLO STATO.”
In conclusione lo Stato etico gentiliano è sì totalitario, ma non un appiattimento autoritario, statico e livellante degli individui sulle istituzioni, è un processo di reciproco avvicinamento e di continua mediazione fra individuo e gerarchie politiche, fra interessi particolari e interessi generali, che deve stimolare in continuazione la libertà spirituale dell’individuo stesso, quale soggettività razionale autocostruttiva e costruttiva, cosciente dei propri doveri comunitari. Lo Stato etico del Fascismo di Gentile nasce dall’estensione ai rapporti politici del suo originario idealismo pedagogico e morale e si configura come un regno kantiano dei fini.
Le teorie politiche fasciste di Gentile, assimilate e rielaborate dal più avanzato e rivoluzionario Fascismo Corporativo e Sindacale, sono lontane anni luce dal totalitarismo omologante e livellante di certi aspetti delle esperienze comuniste e nazionalsocialiste e, soprattutto, del capitalismo mondialista anglo americano.
Non è affatto casuale che proprio Gentile, con l’esplicito intento di costruire una coscienza nazionale unitaria, che stesse alla base del suo mirabile edificio educativo, raccolse attorno ai lavori dell’Enciclopedia Treccani tutte le migliori menti del Paese, senza distinzione di fede religiosa e di appartenenza politica. […]
Lo Stato etico, quale processo infinito d’identificazione fra individuo e comunità nazionale, particolare e universale, è dunque uno Stato etico praticabile, contrapposto alle spinte più esageratamente utopiche del comunismo sovietico.
Non poteva che avere, quale terreno di concretizzazione nella vita reale delle persone, il Corporativismo più intransigente.
Infatti esso sorge, fra il 1918 e il 1919, in tutta l’Europa, come progetto socialista praticabile e concreto, in grado di valorizzare le competenze gestionali, tecniche e intellettuali necessarie allo sviluppo dell’economia di una Nazione, in una prospettiva di socializzazione compartecipativa dei mezzi produzione.
Nella Dottrina del Fascismo, si afferma che, solo attraverso il sindacato e il sistema corporativo, l’autorità dello Stato si sintetizza “alla realtà concreta dell’individuo.” […]
Il discorso torna nuovamente sulla idealità regolativa dello Stato etico. Il Corporativismo è chiamato a dare concretezza all’identificazione individuo e Stato, ponendosi sul terreno dei rapporti economici e dei conflitti di lavoro, ma è esso stesso un processo aperto, indefinitamente progredente, “un approssimarsi a quella immanenza dello Stato nell’individuo, che è la condizione della forza, e cioè dell’essenza dello Stato, e della libertà degli individui”.
Nel già citato articolo del 1932, Gentile interviene direttamente a difesa dell’idea di “Corporazione proprietaria”, avanzata da Ugo Spirito, al Convegno corporativo di Ferrara, e che aveva scatenato le ire della Confindustria. Vi afferma chiaramente che la “Corporazione proprietaria”, cioè la piena “socializzazione e statizzazione corporativa” dei mezzi di produzione, è un principio “in atto”; un modello ideale che stimola un continuo perfezionamento del sistema verso il Corporativismo integrale. il Corporativismo è lo Stato etico divenuto “principio di economia politica”. In quanto si muove a colpire gli interessi “di grassi speculatori dell’industria e del commercio”, e procedendo a integrare proprietà e interessi privati negli organi corporativi dello Stato, “il sistema corporativo sboccherà nella corporazione proprietaria.”
Tutte queste riflessioni avranno la loro sintesi più compiuta nella Genesi e struttura della società del 1944, scritta poco prima del suo olocausto personale nel quadro di un’Italia invasa, calpestata e bombardata dalle orde multietniche alleate.
In questa sua ultima opera Gentile l’Io trascendentale diviene un Noi, società trascendentale.
Di conseguenza ogni persona reca in sé necessariamente il rapporto sociale: individuo e libertà individuale vanno collocati necessariamente in un contesto istituzionale e comunitario.
In che modo l’Io trascendentale è società trascendentale? L’Io è soggetto che pone in sé “l’alter”, l’oggetto: lo si vede nel bambino che tocca il giocattolo, nel poeta che parla alla luna; questi oggetti con un atto spirituale sono posti come alter di sé. L’oggetto così posto in sé stessi si rivela soggettività dialogante con l’Io e nell’Io; l’alter diventa socius: il giocattolo parlerà al bambino e il bambino, anche se solo, diventa una relazione sociale, una piccola società dialogante, ciò vale a maggior ragione per il poeta e, al massimo livello, per il filosofo che dialoga in se stesso con le proprie meditazioni.
Scrive Gentile, “la logica dell’atto spirituale importa che la cosa diventi alter, e l’alter si avvicini e parli e collabori col soggetto in una vita spirituale comune.” […] Essendo ogni persona espressione di questa società trascendentale (che è lo stesso pensiero in atto a dialogare in se stesso e con se stesso), la coscienza empirica trova un modello di superamento “delle estraneità empiriche fra Tizio e Caio”, per dialogare e collaborare con il prossimo nella comunità sociale e istituzionale in cui è nato ed è inserito: la libertà individuale si esercita non nell’asociale logica del consumo materiale e del profitto privato, ma in uno sforzo continuo, rigoroso e cosciente, di socializzazione fraterna e patriottica.
Conclusione: la società ha un’origine trascendentale, è la stessa attività sintetica apriori –pensiero in atto- dell’Io trascendentale; la libertà individuale si esercita entro la società e le sue istituzioni, non contro di esse, delimitando un’astratta sfera individuale intangibile, che poi di fatto si traduce nel carrello del supermercato e/o nella più squallida trasgressione omosessuale.
[…] Gentile procede a identificare lo Stato con la dialettica fra governo e governanti. Lo stato è volontà, come volontà permanentemente in atto, si esprime nel sistema legislativo ma né si irrigidisce né si fossilizza in esso, lo rielabora continuamente in base ai mutamenti continui della storia.
Questa continua attività legislativa esige il consenso dei governanti, “senza il quale il governo non si regge” e la “moralità” dello stato implica una massimo di spontaneità e un minimo di coazione nel consenso, con un chiaro riferimento critico allo staracismo e ai settori fascisti che intendevano costruire il consenso su miti e cerimoniali ripetitivi. […]
Infine, il testo affronta i problemi del governo dell’economia e della rappresentanza del mondo della produzione e del lavoro.
L’attività economica è espressione spirituale del pensiero in atto quando non è subordinata al profitto privato e al godimento dei beni materiali, perché ricadrebbe nel meccanismo naturale. L’attività economica deve diventare un creare, un fare, in sé fonte di piacere per produttori e lavoratori, in sé già superamento delle logiche utilitaristiche ed egoistiche che nascono dalla componente naturale ed empirica dell’individuo.
Essa quindi deve svilupparsi in un quadro mentale e culturale di forte delimitazione del profitto privato e, di conseguenza, dei contrasti di classe. […] Lo Stato dunque è chiamato a governare le attività economiche, conferendo ad esse piena forma universale, etica: è la politica a dettar legge all’economia e non l’inverso. Gentile respinge apertamente la pretesa dell’ “economia pura” di interferire nella politica e di dettar leggi allo stato. Essa ignora i problemi sociali generati dai rapporti economici e crea contrasti insanabili fra economisti puri (con il ché designa i liberisti come Einaudi, già duramente criticati da Ugo Spirito all’inizio degli anni ’30) “e gli uomini politici che sentono il pesante fardello delle loro responsabilità verso la vita sociale”.
Con questo carattere “utile”, non “utilitaristico”, e nel quadro dello stato che la regola, l’attività economica permette a chi lavora di innalzarsi al regno dello spirito, “dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è faber fortunae suae, anzi, faber sui ipsius.”
Lo Stato non può più essere Stato del cittadino astratto, come sorto dalla Rivoluzione francese, deve essere stato del lavoratore concreto, “quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo” […] Lo Stato corporativo è Stato del lavoro: deve dare rappresentanza ai lavoratori, alle categorie in cui s’inseriscono in base alla concreta professione svolta, e conciliarne gli interessi.
Lo stato moderno, lo stato libero è lo stato che conferisce centralità e rappresentanza all’uomo che lavora e alle categorie in cui si colloca ed esprime la sua attività.
Con ciò, con il concorso decisivo delle rappresentanze delle categorie, le istituzioni dello stato devono regolare l’economia, dare piena forma universale ed etica ad essa, cioè conciliare gli interessi sociali e categoriali divergenti, porre lo sviluppo al servizio della comunità, come aveva già indicato Hegel sin dagli scritti del 1802.
Un vero stato libero è uno stato “della libertà aderente alle effettive determinazioni del popolo, a cui si deve attribuire questa libertà.”
“Lo Stato libero, lo Stato dell’uomo che lavora, deve tener conto di questa essenza economica e morale del lavoro, come di necessità esso si differenzia nel sistema dell’economia nazionale.”
Potremmo facilmente parlarne come la più estrema forma di idealismo, e nel contempo come di un umanesimo integrale, che divinizza l’uomo e il suo mondo, lo intende erigere, con un’istanza volitiva estrema desunta dall’imperativo categorico fichtiano di Jena, ad unico Artefice dei propri destini individuali, sociali e storici.
Questa filosofia idealistica della prassi nasce dunque sul terreno di una lettura in senso accentuatamente fichtiano dell’idealismo di Hegel, nel solco già tracciato dalla Sinistra hegeliana e dal giovane Marx. Come sottolineava Lukàcs, gli autori della Sinistra hegeliana, intrecciando Hegel con Fichte, intendevano dinamizzarne la concezione dell’assoluto e della storia, sino a ricavare dalla dialettica hegeliana, con piena coerenza teorica, una visione dell’uomo come prassi cosciente, attività auto formativa e formativa, creativa di sé e del proprio mondo, che è propria della filosofia fichtiana di Jena.
Non è dunque casuale che il primo scritto, con il quale Gentile si presenta al grande pubblico, sia proprio un confronto con Marx e con il Materialismo storico. Ivi Gentile rivendica la centralità complessiva del concetto di “prassi” per la filosofia e il carattere di “filosofia della prassi” del pensiero del primo Marx, in base alle Tesi su Feuerbach del 1844…La conoscenza come prassi è, ad esempio, al centro della critica di Vico a Cartesio. Se la prassi vichiana era “operare della mente dell’uomo”, in Marx è attività lavorativa che parte dai bisogni materiali ed ha una dimensione sociale…la conoscenza non è mai data, è un processo spirituale di produzione e di riproduzione, e lo spirito umano è sempre vigile, attivo, creativo in ogni atto teoretico e la verità non è mai un dato statico.
In questo processo produttivo, soggetto e oggetto sono in mutua relazione: l’autoformazione del soggetto è la formazione dell’oggetto e la conoscenza è sviluppo continuo, radicato nel fare del soggetto “che forma se stesso, formando l’oggetto”. che può vagare isolatamente nei boschi, e la società è negata nella sua necessità, ridotta a fatto accidentale: nasce da un contratto sociale, stipulato dalla massa degli individui empirici isolati, che potrebbero anche decidere il contrario o ritornare sulla loro decisione…
La prassi e l’uomo come prassi sono la completa indipendenza della coscienza razionale nel suo farsi, decidersi e decidere, costruirsi e costruire: deve prescindere ed astrarre da ogni condizionamento esteriore, trasmesso dalla sensibilità, sia esso condizionamento dell’impulso materiale edonistico, sia esso condizionamento dell’ambiente socio culturale.
In ciò è evidente il riferimento alla versione attivistica e demiurgica dell’imperativo categorico kantiano, presente nello Fichte delle opere jenesi: “io devo agire, affinché io diventi libero”. La prassi non può dunque essere minimamente dedotta dalla natura esteriore e dalle sue leggi necessarie, è espressione immanente di un principio ontologicamente superiore, come scritto chiaramente da J Evola, nelle opere filosofiche del 1924-1925, i Saggi sull’idealismo magico, la Teoria e Fenomenologia dell’individuo assoluto.
Nei Saggi, egli scrive che “l’Io è...l’etere infinito che sottende ogni determinazione”; non può mai né essere determinato né essere compreso dall’universo, ma anzi “comprende questo dentro di sé”. Ancor più chiaramente, in alcuni passi della Fenomenologia si afferma la più assoluta indipendenza di ogni atto di volontà, e dunque di azione e costruzione umana rispetto a ogni legge della natura. Il telos del mio agire non è in nessun modo comandato dal determinismo naturale, al contrario “tutto il mondo è ad ogni momento appeso al mio volere e al mio agire”. Non solo l’azione della mia coscienza non è comandata da alcuna legge naturale, ma sono deliberazione della volontà e atto cosciente a farle operare: sono io che in questo momento decido di scrivere e scrivo, utilizzando a comando leggi chimiche e meccaniche dei miei organi cerebrali e manuali, in base ad una forza superiore in me operante, già citata come “etere”, che comanda l’impulso e la natura, piega a sé ogni fattore ambientale: l’uomo è prassi in quanto spirito, in quanto non si fa mai trascinare da nulla di esterno alla propria volontà… Il pensare è la prassi, precedentemente analizzata.
Il pensiero è spirito, un fare cosciente e voluto: un’attività creativa in perenne auto svolgimento, costantemente creativa e unitaria; il pensiero fa, costruisce, mantenendo in sé ogni sua espressione e creazione, creandone continuamente altre, dunque mantenendosi di continuo in unità con sé e in costante attività. Questo pensiero-prassi, che pensando costruisce, che non consente ad alcuna sua determinatezza di uscire dal cerchio della sua unità logico-dinamica, è definito auto concetto o atto puro, e ricorda la vorticosità dell’Io puro di Fichte: tutto poneva, tutto tratteneva in sé, nulla traluceva all’esterno di sé, il cosmo era una pura costruzione logico trascendentale, come lo è per Gentile. Un principio talmente compatto e in auto movimento che rischia di sfuggire ad una vera comprensione concettuale –come evidenzierà proprio Evola- e soprattutto ad una esposizione chiara, esaustiva, didatticamente efficace.
Il principio del pensiero come atto puro e auto concetto, fondamento, cuore pulsante, essenza dinamica di tutto l’idealismo gentiliano della maturità, è già chiaramente esposto nella “Prolusione” sul il concetto di storia della filosofia letta il 10 gennaio 1907 all’Università di Palermo; “Prolusione” inserita ne La riforma della dialettica hegeliano del 1913, ove tutte le questioni ad esso inerenti sono svolte logicamente e storicamente. […] Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, la cui prima edizione risale al 1916, Gentile precisa i caratteri del suo attualismo, operando la nota distinzione fra Io trascendentale e Io empirico. Il pensiero in atto è l’Io trascendentale, unitario e universale; “l’unità infinita dello spirito”, distinto dall’Io empirico, dalla concretezza della singola persona in carne ed ossa, scissa in ragione e sensibilità, contrapposta all’oggettività percepita empiricamente.
La distinzione non sfocia nella separazione ontologica e nella trascendenza del platonismo: l’Io trascendentale è un principio di assoluta spiritualità immanente agli uomini, che li sottrae ad ogni condizionamento della datità esteriore e li erige a soggetti razionali liberi, nel senso già precisato. Di fatto l’uomo reale, l’individuo vive in questo equilibrio dinamico fra Io trascendentale ed Io empirico, come l’Io concreto e finito del terzo principio della Dottrina della scienza fichtiana del 1794.
Torneremo sulla questione. […] L’unità dello spirito, quale Io trascendentale, è certamente immoltiplicabile ed infinita: “la vita, la realtà, la concretezza dell’attività spirituale è nell’unità; e non si ha la molteplicità se non uscendo dalla vita, e fissando le morte astrazioni risultanti dall’analisi”.
Ciò non significa che la natura e la molteplicità delle coscienze empiriche non esistano materialmente, ma che, quest’ultime, lasciate alle sollecitazioni della sensibilità e della datità esteriore, al di fuori di ogni sforzo pensante, non hanno un significato spirituale, e dunque umano. Un degrado della coscienza alla vita animale su cui avrebbe potuto convergere anche Marx, nei Manoscritti economico filosofici del 1844.[…]
L’idealismo gentiliano di questa fase, prima della svolta fascista e dell’incontro di Gentile con le tematiche dello Stato Corporativo del Lavoro, è un idealismo morale e pedagogico. Nessun dubbio che in esso prevalga il principio dell’unità assoluta e assolutamente in atto, l’Io trascendentale sull’Io empirico, una legge morale che chiede alle persone una piena uniformità di vita razionale che culmina nella filosofia come atto educativo. Ma l’uniformità all’unità dell’atto è ancora marginale rispetto al piano politico e s’identifica pienamente con la libertà razionale della coscienza, unendo le istanze del razionalismo etico kantiano con quelle dell’attivismo volontaristico fichtiano. Emblematica la seguente citazione: “la personalità, ogni determinata personalità, non si può pensare che si costituisca se non in virtù delle sue proprie forze, le quali assommano nel pensiero.”
L’unità dell’atto non è proiettata verso una Volksgemeinschaft organicistica e romantica, ma verso l’autocostrizione razionale di sé, in sé e in ogni momento della propria vita. Condizione spirituale mai data una volta per tutte, mai cristallizzata in un dato positivo immutabile, ma da costruirsi costantemente nella vita della coscienza personale: un suo “farsi” “spirito” che fa oscillare quest’ultimo fra un piano di immanenza concreta e operante e un piano trascendentale di idealità regolativa kantiana
Con queste caratterizzazioni fichtiane, l’unità dell’atto, o spirito, o auto concetto, o Io trascendentale è principio immanente la molteplicità delle coscienze, ove si concreta e manifesta come l’Assoluto di Hegel, ed è idealità regolativa kantiana; tale e tanta è la sua assolutezza dinamica, razionale e unitaria, da costituire sempre una conquista umana, giorno per giorno, attimo per attimo. […]
L'Io trascendentale è legge immanente alle coscienze empiriche e le deve destare ad una costante attività e autocostrizione razionale, che pretende di annullare ogni elemento non egotico, istinti, bisogni materiali, interessi privati.
La libertà dell’Io fichtiano non conosce mediazioni con la sensibilità; il suo “sforzo” egotico è privo di spontaneità e di momenti di quiete.
A livello etico e politico può significare un ritorno alla libertà antica come assoluta Virtù, assoluta dedizione patriottica, difficilmente raggiungibile da tutti coloro che compongono la comunità nazionale. Ricade nell’utopia giacobina più nobile ma anche più radicale e antistorica. Gentile troverà una soluzione a queste difficoltà e un maggiore equilibrio, sul piano etico, fra individualità e totalità, guardando allo Stato etico idealistico come ad un’idealità regolativa da conseguire, in un continuo sforzo di volontà collettiva e organizzata, e sviluppando le tematiche concrete del Corporativismo.
Su questa linea giungerà a dare veste compiuta alle teorie politiche fasciste nell’ultima sua grande e dimenticata opera, Genesi e struttura della società. […]
Gentile torna sui caratteri del suo idealismo “attuale” o “attualismo” in uno scritto del 1926. L’anno dopo apparirà la Dottrina del fascismo.
Siamo dunque nel periodo in cui egli comincia a misurarsi con le questioni politiche e con il Corporativismo. Se ne vedono i risultati fecondi anche sul piano teoretico, perché, proprio nello scritto in questione, egli passa da un idealismo pedagogico ed elitario, ad un idealismo umanistico e sociale, rivalutando ogni attività lavorativa e produttiva.
A questo punto, non solo la cultura e l’attività teoretico educativa sono prassi e manifestazioni del pensiero in atto, ma la totalità dell’agire umano, dal lavoro contadino all’insegnamento liceale e accademico della storia della filosofia.
La totalità dell’agire umano è “lavoro” nelle sue varie espressioni e categorie, tutte quante degne di essere organizzate e tutelate nel quadro unitario dello Stato Nazionale del Lavoro, come comprese Benito Mussolini, sin dal 1918. [..]
L’idealismo attuale diviene umanesimo integrale: quando si afferma non solo che tutto è pensiero, ma che il pensiero è permanentemente in atto e ogni atto è pensiero (cioè Io trascendentale, spirito, autoconcetto) significa porre alla base della realtà “quello che fa l’uomo…persona, soggetto, autocoscienza…iniziatore assoluto.” Non è casuale lo sforzo storico e critico, costante in Gentile, teso a trovare le radici più lontane dell’idealismo non in Germania, ma in Italia, con la filosofia umanistica e rinascimentale e il pensiero di Giordano Bruno.
L’idealismo attuale è umanesimo integrale, perché valorizza, in questa fase, sia il lavoro materiale sia l’attività culturale, sia i lavoratori sia gli uomini colti, tutti “lavoratori del braccio e delle mente”, secondo la feconda asserzione mussoliniana: è umanesimo del lavoro, che si apre alla questione sociale con il corporativismo di Bottai, di Spirito, il Sindacalismo Nazionale di Rossoni, ed è formazione delle aristocrazie del pensiero che richiama la grande Riforma della scuola e il Liceo Classico:
“La vita dell’uomo… è affermazione di libertà. Che infatti ogni uomo si sforza di conquistare, sia che con la zappa…s’adoperi a trasformare il suolo in docile strumento di soddisfazione de’ propri bisogni, sia che, con l’analisi districando le difficoltà d’un problema speculativo che gl’incomba molesto sull’animo, cerchi nella soluzione di esso la liberazione del suo spirito dal disagio del problema, che gli impedisce l’intelligenza del mondo in cui egli deve vivere.”
Con Hegel, nonostante i limiti che Gentile attribuisce alla sua nozione di eticità, l’idealismo scopre il carattere spirituale dello Stato.
Fichte rimaneva legato ad una visione contrattualistica e negativa dello Stato: era dedotto da una pluralità di individui originariamente indipendenti, nasceva da un loro patto sociale, rimaneva un limite rispetto alla manifestazione dello spirito nell’individuo e nel suo mondo morale. Hegel afferma la piena identità speculativa fra Stato e individuo […]
Lo Stato etico idealista è libertà concreta dell’individualità. Posta così la questione […] sembra facile vedere nella teoria politica gentiliana un totalitarismo dispotico, che appiattisce l’individuo sulle istituzione e nega ogni forma di libertà. Le cose non sono così semplici.
Sin dal 1925, anno di svolta del Fascismo e anno in cui matura la piena identità fra Gentile e Fascismo, il filosofo siciliano riflette con sempre maggiore profondità e precisione sui caratteri del totalitarismo fascista, sui rapporti fra “l’autorità dello Stato e la libertà dei cittadini”, sul problema del corporativismo.
Proprio nell’anno in questione, Gentile tiene una conferenza all’Università della Casa del Fascio di Bologna, sul tema “Libertà e Liberalismo”, ove intende precisare che lo Stato fascista è autentico Stato liberale, in quanto realizza in sé la concezione moderna della libertà come “spirito umano” che “assoggetta” a sé ogni esteriorità, proponendosi in qualità di Io fichtiano, o per essere più conforme alla terminologia attualista di un “farsi individuo”, di un tendere al piano trascendentale del pensiero permanentemente in atto. […] Solo su questo terreno può crescere quella umanità, contraddistinta da continua attività razionale, creativa e volitiva, da slanci per l’ideale, da coscienza dei propri doveri patriottici, proposta dall’imperativo categorico fichtiano e dall’idealismo mazziniano come autentica umanità emancipata.
Questa libertà dell’uomo di autocostruirsi razionalmente, di essere sempre demiurgo di sé e del proprio mondo in una intersoggettività nazionale, è vera libertà di pensiero: essere liberi di pensare non è certo essere liberi di esprimere e di fare tutto ciò che casualmente passa per la testa; in quanto ciò che passa casualmente per la testa nasce da una determinazione della esteriorità, non è coscienza pensante. Lo Stato fascista è autentico liberalismo perché promuove questa condizione di pensiero attivo in tutte le categorie sociali, per superare gli antagonismi di interesse che contraddistinguono lo Stato liberale.
Nelle Origini e dottrina del Fascismo, del 1927, Gentile approfondisce la riflessione sul rapporto autorità dello Stato e libertà dell’individuo, partendo dal netto rifiuto delle dottrine politiche dei nazionalisti.
Tali dottrine, partendo da un’idea naturalistica e positivista di nazione, come “territorio”, “stirpe”, “lingua”, “storia” – tutti elementi o puramente naturali o dati di fatto acquisiti meccanicamente dalle coscienze - favoriscono la nascita di uno Stato autoritario e aristocratico.
All’opposto lo Stato fascista, in quanto “conquista dello spirito”, “è Stato popolare, e in tal senso Stato democratico per eccellenza.” […]
Gentile riprende la concezione spirituale della Nazione di Mazzini e di Bertrando Spaventa: la Nazione è la coscienza che se ne ha; coscienza continua della propria appartenenza ad una comunità politica, che ha identità di territorio, di cultura, di destino storico; coscienza continua dei propri doveri patriottici, della necessità di subordinare gli egoismi particolari all’interesse pubblico.
Su queste basi la nazione non è un dato di fatto scontato, ma un’elaborazione del pensiero che deve ramificarsi in ogni anfratto della vita nazionale grazie ad un sistema educativo funzionante.
E lo Stato, se vuole veramente essere Stato nazionale e raccogliere il contributo di tutti gli italiani, deve consentire ai filosofi, agli uomini di cultura, di esprimersi in un’essenziale, costruttiva libertà di pensiero ed essere Stato educativo, che promuove costantemente la coscienza nazionale attraverso una scuola ben funzionante.
Ogni italiano è chiamato ad essere tale sapendo di esserlo, operando, a qualsiasi livello, come tale. L’italiano o il tedesco sono tali se la coscienza della loro italianità o della loro appartenenza germanica rimane viva e desta e ispira la loro azione: questa continua e vigile coscienza patriottica non può essere costruita artificialmente, attraverso operazioni eteronome rispetto alla ragione, o addirittura intenzionalmente rivolte ad agire sulla pura e semplice sfera emotiva, come le parate di regime organizzate da Achille Starace.
Per il rigoroso razionalismo fichtiano di Gentile, la coscienza patriottica esige lo stesso autonomo sforzo di pensiero autocostrittivo e autocostruttivo della coscienza morale. Essere italiani e vivere da italiani nasce dalla libertà interiore della coscienza, che sa una necessità feconda i propri doveri verso la Nazione e li vuole espletare.
E’ questo il “circolo infrangibile” fra “l’autorità dello Stato e la libertà dei cittadini” di cui scrive Gentile. Egli comprende sin dall’inizio che lo Stato nazionale e popolare esiste se i cittadini lo vogliono autonomamente creare. In caso contrario è una parata militare, un organismo di facciata che crolla con le prime difficoltà sul fronte greco albanese: “la libertà è solo nello Stato, e lo Stato è autorità; ma lo Stato non è un’astrazione, un ente disceso da cielo e campato in aria sulle teste dei cittadini”.
Lo Stato “è tutt’uno con la personalità del singolo, che deve però promuovere, cercare, riconoscere, sapendo che c’è in quanto si fa essere.”
Insomma lo Stato può essere autoritario e totalitario quanto si vuole, può organizzare tutte le parate possibili e immaginarie, accendere per attimo fantasie e speranze con le cartoline d’Africa, ma se non conquista e attiva la mente e i cuori dei cittadini non esiste; e per conquistarli e attivarli occorre promuoverne la crescita materiale e spirituale; economica, sociale e culturale. E su questo terreno entra in gioco il Corporativismo.
Lo Stato fascista è popolare e democratico, promuove la personalità del singolo, ne conquista la mente e il cuore, in quanto Stato corporativo del lavoro.
Prima di argomentare più dettagliatamente la questione del Corporativismo è necessario precisare due questioni strettamente correlate: primo, lo Stato etico gentiliano appare dedotto e giustificato in base alle legge morale; secondo, in tutti gli scritti politici, Gentile dà l’idea di considerarlo un’idealità regolativa, al pari della stessa coscienza morale. Coscienza morale e Stato etico non sono mai un acquisizione definitiva, né mai s’immedesimano in una realtà di fatto cristallizzata.
Del resto questa dinamicità assoluta dello spirito è implicita nell’idealismo gentiliano: come l’uomo reale vive in un costante equilibrio dinamico fra Io empirico e Io trascendentale, in un farsi costante demiurgo razionale di se stesso e del proprio mondo sociale, anche lo Stato fascista è un costante perfezionamento di sé verso l’ideale della piena eticità, cui si aggiungerà, dal 1931 al 1944, l’ideale della Corporazione proprietaria e della Socializzazione dei mezzi di produzione. Sono o non sono i comunisti, per l’ultimo Gentile, dei corporativismi impazienti?
In conclusione al capitolo finale, su “Stato e politica”, dei Fondamenti filosofici del diritto del 1937, si afferma che compito primario dello Stato è sollevare “l’individuo dalla sua empirica particolarità all’universalità essenziale che conferisce alla sua azione un valore morale e perciò politico, o meglio più intensamente morale e più energicamente politico.”
E’ chiaro che lo Stato si assume il compito di istituzionalizzare e generalizzare ad un intero popolo il rapporto pedagogico che deve innalzare le coscienze empiriche alla già definita libertà razionale dello “spirito”: la coscienza morale è anche la coscienza politica e patriottica del cittadino attivo di ogni categoria e classe sociale.
Uno Stato simile non può che avere il carattere di idealità regolativa della coscienza morale: scrive Gentile, in un articolo del 1932, su “individuo e Stato”, posto in appendice alla terza e ultima edizione dei Fondamenti filosofici del diritto:
“Quando l’idealista dice individuo = Stato non intende che sia un’identità immediata […] L’identità di cui si parla è essa stessa qualche cosa di reale in quanto si realizza. Il che vuol dire che lo Stato è sempre e non è mai quello Stato che deve essere; né ci potrà mai essere un giorno in cui, compiuto il processo, l’individuo si sia risolto completamente nello ; poiché quel giorno non vi sarebbe più individuo, ma non vi sarebbe neanche Stato.
PER NON SBAGLIARE, PERTANTO, BISOGNEREBBE PARLARE NON D’IDENTITA’, MA D’IDENTIFICAZIONE, CHE E’ RISOLUZIONE INFINITA DELL’INDIVIDUO NELLO STATO.”
In conclusione lo Stato etico gentiliano è sì totalitario, ma non un appiattimento autoritario, statico e livellante degli individui sulle istituzioni, è un processo di reciproco avvicinamento e di continua mediazione fra individuo e gerarchie politiche, fra interessi particolari e interessi generali, che deve stimolare in continuazione la libertà spirituale dell’individuo stesso, quale soggettività razionale autocostruttiva e costruttiva, cosciente dei propri doveri comunitari. Lo Stato etico del Fascismo di Gentile nasce dall’estensione ai rapporti politici del suo originario idealismo pedagogico e morale e si configura come un regno kantiano dei fini.
Le teorie politiche fasciste di Gentile, assimilate e rielaborate dal più avanzato e rivoluzionario Fascismo Corporativo e Sindacale, sono lontane anni luce dal totalitarismo omologante e livellante di certi aspetti delle esperienze comuniste e nazionalsocialiste e, soprattutto, del capitalismo mondialista anglo americano.
Non è affatto casuale che proprio Gentile, con l’esplicito intento di costruire una coscienza nazionale unitaria, che stesse alla base del suo mirabile edificio educativo, raccolse attorno ai lavori dell’Enciclopedia Treccani tutte le migliori menti del Paese, senza distinzione di fede religiosa e di appartenenza politica. […]
Lo Stato etico, quale processo infinito d’identificazione fra individuo e comunità nazionale, particolare e universale, è dunque uno Stato etico praticabile, contrapposto alle spinte più esageratamente utopiche del comunismo sovietico.
Non poteva che avere, quale terreno di concretizzazione nella vita reale delle persone, il Corporativismo più intransigente.
Infatti esso sorge, fra il 1918 e il 1919, in tutta l’Europa, come progetto socialista praticabile e concreto, in grado di valorizzare le competenze gestionali, tecniche e intellettuali necessarie allo sviluppo dell’economia di una Nazione, in una prospettiva di socializzazione compartecipativa dei mezzi produzione.
Nella Dottrina del Fascismo, si afferma che, solo attraverso il sindacato e il sistema corporativo, l’autorità dello Stato si sintetizza “alla realtà concreta dell’individuo.” […]
Il discorso torna nuovamente sulla idealità regolativa dello Stato etico. Il Corporativismo è chiamato a dare concretezza all’identificazione individuo e Stato, ponendosi sul terreno dei rapporti economici e dei conflitti di lavoro, ma è esso stesso un processo aperto, indefinitamente progredente, “un approssimarsi a quella immanenza dello Stato nell’individuo, che è la condizione della forza, e cioè dell’essenza dello Stato, e della libertà degli individui”.
Nel già citato articolo del 1932, Gentile interviene direttamente a difesa dell’idea di “Corporazione proprietaria”, avanzata da Ugo Spirito, al Convegno corporativo di Ferrara, e che aveva scatenato le ire della Confindustria. Vi afferma chiaramente che la “Corporazione proprietaria”, cioè la piena “socializzazione e statizzazione corporativa” dei mezzi di produzione, è un principio “in atto”; un modello ideale che stimola un continuo perfezionamento del sistema verso il Corporativismo integrale. il Corporativismo è lo Stato etico divenuto “principio di economia politica”. In quanto si muove a colpire gli interessi “di grassi speculatori dell’industria e del commercio”, e procedendo a integrare proprietà e interessi privati negli organi corporativi dello Stato, “il sistema corporativo sboccherà nella corporazione proprietaria.”
Tutte queste riflessioni avranno la loro sintesi più compiuta nella Genesi e struttura della società del 1944, scritta poco prima del suo olocausto personale nel quadro di un’Italia invasa, calpestata e bombardata dalle orde multietniche alleate.
In questa sua ultima opera Gentile l’Io trascendentale diviene un Noi, società trascendentale.
Di conseguenza ogni persona reca in sé necessariamente il rapporto sociale: individuo e libertà individuale vanno collocati necessariamente in un contesto istituzionale e comunitario.
In che modo l’Io trascendentale è società trascendentale? L’Io è soggetto che pone in sé “l’alter”, l’oggetto: lo si vede nel bambino che tocca il giocattolo, nel poeta che parla alla luna; questi oggetti con un atto spirituale sono posti come alter di sé. L’oggetto così posto in sé stessi si rivela soggettività dialogante con l’Io e nell’Io; l’alter diventa socius: il giocattolo parlerà al bambino e il bambino, anche se solo, diventa una relazione sociale, una piccola società dialogante, ciò vale a maggior ragione per il poeta e, al massimo livello, per il filosofo che dialoga in se stesso con le proprie meditazioni.
Scrive Gentile, “la logica dell’atto spirituale importa che la cosa diventi alter, e l’alter si avvicini e parli e collabori col soggetto in una vita spirituale comune.” […] Essendo ogni persona espressione di questa società trascendentale (che è lo stesso pensiero in atto a dialogare in se stesso e con se stesso), la coscienza empirica trova un modello di superamento “delle estraneità empiriche fra Tizio e Caio”, per dialogare e collaborare con il prossimo nella comunità sociale e istituzionale in cui è nato ed è inserito: la libertà individuale si esercita non nell’asociale logica del consumo materiale e del profitto privato, ma in uno sforzo continuo, rigoroso e cosciente, di socializzazione fraterna e patriottica.
Conclusione: la società ha un’origine trascendentale, è la stessa attività sintetica apriori –pensiero in atto- dell’Io trascendentale; la libertà individuale si esercita entro la società e le sue istituzioni, non contro di esse, delimitando un’astratta sfera individuale intangibile, che poi di fatto si traduce nel carrello del supermercato e/o nella più squallida trasgressione omosessuale.
[…] Gentile procede a identificare lo Stato con la dialettica fra governo e governanti. Lo stato è volontà, come volontà permanentemente in atto, si esprime nel sistema legislativo ma né si irrigidisce né si fossilizza in esso, lo rielabora continuamente in base ai mutamenti continui della storia.
Questa continua attività legislativa esige il consenso dei governanti, “senza il quale il governo non si regge” e la “moralità” dello stato implica una massimo di spontaneità e un minimo di coazione nel consenso, con un chiaro riferimento critico allo staracismo e ai settori fascisti che intendevano costruire il consenso su miti e cerimoniali ripetitivi. […]
Infine, il testo affronta i problemi del governo dell’economia e della rappresentanza del mondo della produzione e del lavoro.
L’attività economica è espressione spirituale del pensiero in atto quando non è subordinata al profitto privato e al godimento dei beni materiali, perché ricadrebbe nel meccanismo naturale. L’attività economica deve diventare un creare, un fare, in sé fonte di piacere per produttori e lavoratori, in sé già superamento delle logiche utilitaristiche ed egoistiche che nascono dalla componente naturale ed empirica dell’individuo.
Essa quindi deve svilupparsi in un quadro mentale e culturale di forte delimitazione del profitto privato e, di conseguenza, dei contrasti di classe. […] Lo Stato dunque è chiamato a governare le attività economiche, conferendo ad esse piena forma universale, etica: è la politica a dettar legge all’economia e non l’inverso. Gentile respinge apertamente la pretesa dell’ “economia pura” di interferire nella politica e di dettar leggi allo stato. Essa ignora i problemi sociali generati dai rapporti economici e crea contrasti insanabili fra economisti puri (con il ché designa i liberisti come Einaudi, già duramente criticati da Ugo Spirito all’inizio degli anni ’30) “e gli uomini politici che sentono il pesante fardello delle loro responsabilità verso la vita sociale”.
Con questo carattere “utile”, non “utilitaristico”, e nel quadro dello stato che la regola, l’attività economica permette a chi lavora di innalzarsi al regno dello spirito, “dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è faber fortunae suae, anzi, faber sui ipsius.”
Lo Stato non può più essere Stato del cittadino astratto, come sorto dalla Rivoluzione francese, deve essere stato del lavoratore concreto, “quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo” […] Lo Stato corporativo è Stato del lavoro: deve dare rappresentanza ai lavoratori, alle categorie in cui s’inseriscono in base alla concreta professione svolta, e conciliarne gli interessi.
Lo stato moderno, lo stato libero è lo stato che conferisce centralità e rappresentanza all’uomo che lavora e alle categorie in cui si colloca ed esprime la sua attività.
Con ciò, con il concorso decisivo delle rappresentanze delle categorie, le istituzioni dello stato devono regolare l’economia, dare piena forma universale ed etica ad essa, cioè conciliare gli interessi sociali e categoriali divergenti, porre lo sviluppo al servizio della comunità, come aveva già indicato Hegel sin dagli scritti del 1802.
Un vero stato libero è uno stato “della libertà aderente alle effettive determinazioni del popolo, a cui si deve attribuire questa libertà.”
“Lo Stato libero, lo Stato dell’uomo che lavora, deve tener conto di questa essenza economica e morale del lavoro, come di necessità esso si differenzia nel sistema dell’economia nazionale.”
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