sabato 28 aprile 2012

67 ANNI OGGI VENIVA UCCISO BENITO MUSSOLINI - LA STORIA

riproponiamo la versione (le versioni) contenute in Wikipedia relative agli ultimi giorni del regime fascista, la fuga da Milano, la cattura e la morte di Benito Mussolini di cui oggi ricorre il 67^ ANNIVERSARIO

La fuga da Milano a Dongo

Milano


25 aprile 1945: Mussolini abbandona la prefettura di Milano.
Questa è l'ultima foto che ritrae Mussolini vivo.

In viola il percorso di Mussolini, in rosso tratteggiato le possibili diversioni stradali al confine svizzero; in giallo il percorso più corto per la Valtellina (ma per le condizioni della strada al tempo quello richiedente il maggior tempo di percorrenza e il rischioso attraversamento di un ponte sull'Adda)
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandona il 17 aprile 1945 l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferisce con tutto il suo governo a Milano, dove vi arriva la mattina seguente prendendo alloggio nella prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina[1].
Il 20 aprile concede nella prefettura di Milano, ove ormai è rinchiuso, un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale "Popolo di Alessandria", ed alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda lo sorprende rispondendo: "intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile[2].
Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura pronuncia l'ultimo discorso ad un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, chiuso con l'affermazione che "se la Patria è perduta è inutile vivere". La sera si incontra con Carlo Silvestri e gli consegna una dichiarazione per il comitato esecutivo del PSIUP[3] in cui chiede che la RSI finisca in mani repubblicane, non monarchiche, socialiste e non borghesi.
Il 23 aprile le truppe alleate entrano a Parma, e da Milano non sono più possibili le comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova, il giorno seguente Genova è liberata e il console tedesco Wolf si fa vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di 10 milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziano ad occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano[1].
Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, si svolge nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, l'industriale Gian Riccardo Cella, il prefetto di Milano Mario Bassi, i ministri Zerbino e Graziani ed una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democratico-cristiano Marazza e dal rappresentante del partito d'azione Riccardo Lombardi. Sandro Pertini arriverà in ritardo a riunione conclusa. A Milano è in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale è imminente. Inoltre Mussolini apprende durante l'incontro che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l'unica proposta che riceve dai suoi interlocutori è quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembra possibile, dato che vengono date garanzie per i fascisti e per i loro familiari[4], ma i repubblicani, anche se senza vie d'uscita, non vogliono essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento[5]. Si riservano di dare una risposta entro un'ora lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non ritorneranno più.
In serata, verso le ore 20, mentre i capi della resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, danno l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini salutati gli ultimi fedeli[6], lascia Milano e parte in direzione di Como, assieme ai fascisti si trova il tenente Bizier con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque vada.[7].

Como

Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti riservatissimi e di particolare importanza politica e militare va in panne nei pressi di Garbagnate. L'equipaggio, tra cui Maria Righini cameriera personale di Mussolini, raggiunge Como con mezzi di fortuna. Vani risultano i tentativi di recupero effettuati nella notte. Il furgone sarà ritrovato la mattina seguente dai partigiani[8].
Alle 21:30 il capo del fascismo raggiunge la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano ed Anna Maria, ma Mussolini si rifiuta di incontrarli[9], limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a una telefonata con cui raccomanda alla moglie di portare i figli in Svizzera[10]. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demoliscono la possibilità di una sosta prolungata in città, considerata indifendibile. Rodolfo Graziani consiglia di ritornare a Milano, la maggior parte, in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, spingono per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta, si sceglie di proseguire verso Menaggio.
Verso le quattro del mattino del 26 aprile cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandona precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.
L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera, esce dedicando la sua prima pagina all'insurrezione di Milano contro i nazifascisti e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni"[11].

Menaggio e Grandola

A Menaggio proseguono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre continuano ad arrivare nel centro lariano importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffonde. Rodolfo Graziani spinge per tornare indietro, non ascoltato si congeda e fa ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritorna sui suoi passi, per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como; nel viaggio sarà attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti vogliono sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano[12]. Si sceglie di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio devia ad ovest in Val Menaggio, per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53a compagnia della Milizia Confinaria con sede all'albergo Miravalle. A Cardano Mussolini è raggiunto dall'amante Clara Petacci accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprende che a Chiavenna un aereo da trasporto sarebbe pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera[13]. A Grandola è raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-SS, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda[14]. In serata arriva la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi, Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como, Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, sono stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annuncia che anche Milano è stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale, trovati con le armi in mano saranno puniti con la pena di morte[15]. Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si torna a Menaggio. Nella notte arriva Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati, ma con soli sette o otto militi della GNR.

Dongo


Camion della colonna tedesca
Nella notte, insieme a Pavolini, giunge a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del capitano Hans Fallmeyer diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decide di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro alle cinque del mattino parte da Menaggio, ma alle sette, poco oltre Musso, viene fermata ad un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a trattative, i tedeschi ottengono il permesso di poter proseguire a condizione che venga effettuata un'ispezione, e che siano consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il tenente Fritz Birzer, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finge ubriaco e sale sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, ricoperto con una coperta di lana. A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si consegnano al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li affiderà ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro"[16]

Finalità del viaggio

Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità:
Como e la sponda occidentale del suo lago rappresentava una zona marginale relativamente protetta e con una presenza partigiana limitata. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro ed appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio e quindi era possibile consegnarsi a loro con garanzie. Secondo la testimonianza del prefetto di Como Renato Celio, questa era l'obiettivo primario[17] o punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il ridotto alpino repubblicano e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli comandante della GNR e dal ministro Rodolfo Graziani[18], o alternativamente sembrava possibile costituire nella città lariana un estremo baluardo di difesa, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi “in extremis” con gli Alleati al loro arrivo[19]. Infatti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti[20], mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di abbandonarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle 3 del mattino[21].
Infine la vicinanza con la Svizzera poteva offrire una estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva sempre detto di rifiutare questa possibilità, consapevole che le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti ed ai loro familiari[19]. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna[22]. Il Duce che giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera è stato arrestato[23] è la prima immagine denigratoria che non sembra corrispondere alla verità. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini ad espatriare[24].

La cattura e la detenzione

Dongo

Verso le ore 15 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, viene però riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri[25] e prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecomandante di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagna nella sede comunale, dove gli viene sequestrata la borsa di cui era in possesso[26].
Tutti gli altri componenti al seguito vengono arrestati: si tratta di più di cinquanta[27] persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblicano, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegna spontaneamente, altri tentano di comprarsi una possibilità di fuga offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un'autoblindo cercano di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggono buttandosi nel lago ma vengono ripresi e Pavolini rimane ferito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, saranno sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra gli altri, che rimangono agli arresti a Dongo e saranno trasferiti a Como, un'ulteriore decina di essi, in due notti successive, viene prelevata ed uccisa.[28].
Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il susseguente arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro”. Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice commissario politico Urbano Lazzaro “Bill” e il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”. Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare, Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'Interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells[29]. Tra i fermati c'è anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti[30][31].
Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo, vengono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo vengono anch'essi trasferiti a Germasino, i ministri rimangono rinchiusi nei locali del municipio e gli altri, autisti, impiegati, militari tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco, distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri ed in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, vengono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, esegue l'inventario di tutti gli ingenti valori ed i beni sequestrati.

Decisioni del CLNAI a Milano

Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo"[32] era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20.20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.
Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all’art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato"[33].
Con il diffondersi della notizia, giungeva al comando del CLNAI dal quartiere generale OSS di Siena un telegramma[34] con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di tutti i membri di governo della RSI, secondo la clausola numero 29 dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, che prevedeva espressamente che: "Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite". All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore[35].
Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Luigi Longo, riunitosi alle ore 23.00 del giorno 27, decide di agire senza indugio e di inviare una missione a Como per procedere all'esecuzione di Mussolini; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del CLN e di lealtà verso gli Alleati[36].
Walter Audisio, “colonnello Valerio”, ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo vengono incaricati di eseguire la sentenza. Il generale Raffaele Cadorna, riluttante, per evitare che Mussolini cada nelle mani degli Alleati[37], rilascia il salvacondotto necessario[38]; Audisio, inoltre, viene munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'OSS americano Emilio Daddario[39]. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna[40] rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro[41].
Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmette agli alleati un fonogramma a scopo depistaggio, nel quale si asserisce l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti"[42]. Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.

Germasino

In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18.30 del 27 aprile, trasferisce l'ex duce, insieme a Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scopre che si tratta di Clara Petacci, che chede di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsente.
Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore manifesta invece una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattiene con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza[43]. Prima di coricarsi alle 23.30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrive questa dichiarazione: La 52a Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerd' 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini[44]. All'1.00 viene svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, per non essere riconosciuto, gli viene fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini è riunito alla Petacci, su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri sono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche Pedro, il Capitano Neri, Gatti, la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino"[45] e condotti verso il basso lago.

Bonzanigo


Bonzanigo di Mezzegra, casa De Maria, in una immagine dell'epoca
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", è del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" è invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rende conto che è troppo rischioso procedere oltre e non è possibile raggiungere la meta prefissata[46]. "Pedro" riesce quindi a convincere il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non viene rinvenuta nessuna imbarcazione pronta ad accoglierli.[41]. Intanto in lontananza, si odono echi di una nutrita sparatoria: si tratta di una prima avanguardia della 34a Divisione statunitense che sta entrando in città. Si decide quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustrano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini[34].
Intorno alle ore 3.00 di notte del 28 aprile, Mussolini e la Petacci sono quindi fatti scendere dalle vetture ed alloggiare a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fida ciecamente[47]. Il piantonamento notturno è effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi, "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritorna a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista "Carletto Scassamacchine" si dirigono verso Como.

La morte

La versione storica - cronologia
L'Unità del 29 aprile 1945 riportò la notizia della morte di Mussolini senza ulteriori commenti Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti in nome del popolo. Il primo resoconto ufficiale, seppur sintetico, comparve sul quotidiano L'Unità nella sua edizione milanese il 30 aprile 1945, ripreso il 1º maggio nell'edizione nazionale. Portava il titolo "L'esecuzione di Mussolini" e non era firmato. In esso non si fanno nomi, ma si parla genericamente di esecutori.
Dal 18 novembre al 24 dicembre 1945, sempre sullo stesso quotidiano nell'edizione romana, in ventiquattro puntate, viene presentata una relazione più dettagliata. Gli articoli non sono firmati, ma sono introdotti da una breve presentazione di Luigi Longo. Qui l'esecutore viene chiamato con il solo nome di battaglia di colonnello Valerio. Questa versione è stata parzialmente ripubblicata il 25 aprile 1995.
L'identificazione del "Colonnello Valerio"con Walter Audisio è stata effettuata solo nel 1947, in un servizio di otto puntate dal sei al sedici marzo firmato da Alberto Rossi, il quotidiano romano Il Tempo e dal periodico neofascista Meridiano d'Italia.
Per questo motivo il 22 marzo, la segreteria del P.C.I. confermò con un comunicato che Valerio ed Audisio erano la stessa persona.
Il giorno dopo comparve su L'Unità una biografia di Walter Audisio dal titolo "Colui che fece giustizia per tutti. L'uomo Valerio".
Un circostanziato memoriale, in cui Audisio racconta in prima persona, venne pubblicato in sei puntate da L'Unità fra il venticinque ed il ventinove marzo.
Nel maggio 1972, su richiesta di Armando Cossutta, Aldo Lampredi Guido consegna alla dirigenza del P.C.I. una relazione riservata non destinata alla pubblicazione. Sarà però pubblicata da L'Unità il 26 gennaio 1996.
Nel 1975 Walter Audisio racconta nel libro postumo In nome del popolo italiano, curato dalla moglie Ernestina Ceriana, le vicende di cui è stato protagonista.
Michele Moretti "Pietro Gatti" rilascia la sua versione in diverse interviste e dichiarazioni. La testimonianza più rilevante è contenuta nel libro di Giusto Perretta, presidente dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Dongo, 28 aprile 1945. La verità pubblicato nel 1997.

La versione storica


Il vialetto di Giulino di Mezzegra poco tempo dopo gli eventi
La Versione storica o ufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l'uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate[48].

La missione del colonnello "Valerio"

Alle 7 del mattino del 28 aprile, Valerio e Guido partirono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani,[49] agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano[50]. Trattenuto a Como fino alle 12.15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta a Dongo, dove giungerà alle 14.10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura e vanno a cercare aiuto nella sede comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca del P.C.I. lasciano Como verso le 10 ed arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giunsero da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo ad operazione conclusa.
A Dongo "Valerio" trova un ambiente difficile ed ostile, infatti i partigiani lariani temevano un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende collaborare acriticamente, protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali, e ritenendole sufficienti, è costretto ad ubbidire ad un ufficiale di grado superiore[51].

La presa in consegna di Mussolini e fucilazione

Alle 15.15 Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere i prigionieri e, a sua insaputa, parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri ed il luogo essendoci già stato la notte prima e l'autista Giovanni Battista Geninazza.
Moretti è armato di mitra francese MAS, calibro 7,65 lungo[52]; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm[53]. L’arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell’Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata[54].
Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L’ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio[55], è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su "L'Unità" nel 1996.

Giulino di Mezzegra, il cancello di villa Belmonte, sul muretto la croce indicante il luogo dove vennero uccisi Benito Mussolini e Clara Petacci.
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante[56]: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.
Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell’esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull’ex capo del fascismo. La Petacci, postasi improvvisamente sulla traiettoria del mitra, è colpita ed uccisa per errore. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola[57][58]. Sul luogo dell’esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti[58]. Sono le ore 16.10 del giorno 28 aprile 1945.
L'edizione locale dell'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"[59]; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini".

Walter Audisio


Ricostruzione dell'uccisione di Benito Mussolini. Un uomo indica un punto preciso del muro dove avvenne la fucilazione a Giulino di Mezzegra, ottobre 1945, foto di Federico Patellani
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l’esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano "L'Unità", organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.
Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti ad una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra[60]. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra[61]. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di una azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili[62].

L'ipotesi inglese

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Carteggio Churchill-Mussolini.

La prima pagina dell'edizione mediterranea del 1 Maggio di Stars and Stripes, giornale delle forze armate statunitensi, che riporta la notizia della morte di Mussolini, con la fotografia del suo cadavere appoggiato su quello della Petacci, con il titolo di "How a dictator dies" (Come muore un dittatore)[63]
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (VA), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 e il 21 gennaio 1945[64][65]; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini[66], suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari etc.) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti[26] contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill[67][68], ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell’immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio[69].
Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell’ex comandante della divisione partigiana formata dalla 111ª, 112ª e 113ª Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati “Giacomo”[70]. In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant’anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l’autore dell’uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le ore 11, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell’ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest’ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti.
In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato dal un agente inglese il giorno precedente a Milano alle ore 16 e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto “l’alpino”, posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L’esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l’agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant’anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall’agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione[71]da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant’anni, a conferma di tale versione dei fatti.[72]
Tale versione è stata accreditata da Peter Tompkins[73], scrittore ed ex agente segreto americano e dallo storico Luciano Garibaldi[74].
Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze:
  • È documentato da registrazioni telefoniche e dalla corrispondenza intercorsa tra Mussolini e la Petacci, che quest’ultima era effettivamente al corrente dei contatti tra Churchill ed il capo del fascismo e del carteggio segreto[75].
  • È stata individuata la presenza in loco, ai primi di maggio del 1945, di un misterioso agente in uniforme da alpino, sicuramente in contatto con spie inglesi e probabilmente anche con la partigiana Giuseppina Tuissi “Gianna”[76], una delle poche persone a conoscenza della prigione di Mussolini e della Petacci, prima dell’esecuzione.
  • È stato effettivamente testimoniato il verificarsi di una sparatoria con morti tra un posto di blocco di partigiani e una macchina, ad Argegno, la mattina del 28 aprile[77].
  • L’orario antimeridiano dell’uccisione, secondo la versione Lonati, è coerente con la circostanza, rilevata in sede di autopsia, che lo stomaco di Mussolini fosse privo di resti di cibo[78].
  • La testimonianza di Dorina Mazzola, che ha dichiarato che Mussolini e la Petacci furono uccisi a Bonzanigo e non a Giulino di Mezzegra in orario antimeridiano del 28 aprile 1945 è abbastanza coerente, anche se non coincide perfettamente, con quanto affermato da Lonati. La Mazzola ricordava anche un uomo che aveva a tracolla “una lussuosa macchina fotografica”[79].
Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant’anni tutti i partigiani presenti[80]. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione di Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di “Colonnello Valerio” fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene[81].
La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione ufficiale dei fatti, di cui è cenno in premessa:
  • Dall’autopsia effettuata a Milano il 30 aprile 1945, dal prof. Caio Mario Cattabeni, che ha rilevato almeno sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Benito Mussolini[78], mentre Lonati ha affermato di aver sparato non più di quattro o cinque colpi[82].
  • Dagli ulteriori esami effettuati dal prof. Pierluigi Baima Bollone sulle fotografie dei cadaveri sospesi al traliccio di Piazzale Loreto, che attesterebbero non solo l’esistenza di una raffica di mitra sui due corpi, ma anche l’effettuazione del colpo di grazia a mezzo pistola[83].
  • Dal rilevamento di due proiettili da pistola, calibro 9 mm corto, nel corpo di Claretta Petacci, nel corso della riesumazione effettuata il 12 aprile 1947[58], incompatibile con i proiettili del mitra Sten calibro 9 mm lungo, che il Lonati asserisce fosse imbracciato dall’esecutore dell’omicidio[82].
  • Dalla circostanza che, in realtà, i partigiani incaricati a sorvegliare Mussolini e la Petacci, in casa De Maria furono soltanto due ("Lino" e "Sandrino), mentre invece Lonati racconta che il suo "commando" ne avrebbe immobilizzati tre, prima di effettuare la duplice uccisione;
  • Dal parere dell’anatomopatologo Luigi Baima Bollone che non ritiene decisiva la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, in rapporto alla determinazione dell’orario dell’esecuzione[58].
  • Dal silenzio dell’ambasciata britannica più volte interessata dallo stesso Lonati per la conferma della sua versione, una volta scaduti i cinquant’anni dai fatti.
  • Dal rifiuto di rilasciare dichiarazioni a suo favore, da parte dell’unico partigiano del "commando", ancora vivente all’epoca della trasmissione trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "Enigma", del 31 gennaio 2003.
  • Dal responso negativo della “macchina della verità”, cui si è sottoposto il Lonati stesso nel corso della trasmissione suddetta.

Diverse versioni

Oltre alla versione storica e all'ipotesi inglese, sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
  • Il 22 ottobre 1945, ancor prima che si fosse formata la "versione storica" dei fatti, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", uno dei due militanti che il 28 aprile 1945 avevano piantonato Mussolini e la Petacci in casa De Maria, rilasciava un'intervista al Corriere d'Informazione. "Sandrino" dichiarava alla stampa di aver seguito a piedi la squadra degli esecutori e delle vittime della fucilazione, e di esser giunto nei pressi di Villa Belmonte in tempo per vedere “Valerio” sparare un paio di colpi di pistola contro l’ex duce, il quale era rimasto inaspettatamente in piedi; la raffica di mitra, che, secondo l’intervistato, avrebbe investito sia Mussolini che la Petacci, sarebbe stata inflitta da Michele Moretti, intervenuto subito per risolvere l’impasse. Successivamente lo stesso "Valerio" avrebbe sparato altri due colpi di pistola, sul corpo dell’uomo, che si muoveva ancora[45].
  • Altre versioni alternative sono frutto dell’attestazione del prof. Cattabeni, in sede di necroscopia del 30 aprile 1945, relativa all’assenza di residui di cibo nello stomaco di Mussolini[78]; da ciò la deduzione che il duplice omicidio si sarebbe verificato in orario antimeridiano e l’ipotesi che poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile si sarebbe svolta una “finta fucilazione” di due cadaveri. Il primo studioso a delineare una simile tesi è stato Franco Bandini, nel 1978[84].
  • Nel 1993, lo storico Alessandro Zanella, sostenne che la duplice uccisione sia avvenuta intorno alle ore 5.30 del 28 aprile, all'interno o nei paraggi di casa De Maria, ad opera di Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Gatti" e Giuseppe Frangi "Lino"[85]. Quest'ultima versione si avvale di uno studio prodotto dal dr. Aldo Alessiani, medico giudiziario della magistratura di Roma, nel quale si attesta, in base all’esame delle foto scattate dalle ore 11.00 alle 14.00 circa del 29 aprile sui cadaveri appesi al traliccio di Piazzale Loreto, che Mussolini e la Petacci fossero morti da circa trentasei ore, e cioè ben prima delle ore 16.00 del 28 aprile 1945[86]. Anche la cosiddetta “pista inglese” di cui è cenno nella precedente sezione, presuppone un’esecuzione in orario antimeridiano, anche se intorno alle 11.00.
  • Nel 1996 si è affiancata a quella del Bandini e di Zanella, un'altra ipotesi di uccisione antimeridiana, proposta dal giornalista ed ex senatore del MSI Giorgio Pisanò, a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Dorina Mazzola, vicina di casa dei De Maria, all'epoca dei fatti diciannovenne[87]. Quest’ultima avrebbe testimoniato di aver assistito, sia pur da distanza di circa duecento metri, ad un diverbio con urla e spari verso le 10.00 del mattino del 28 aprile, provenienti dal cortile di casa De Maria, nel quale avrebbe notato una persona calva e in maglietta che camminava a fatica nel cortile; subito dopo la Mazzola avrebbe sentito una raffica di mitra e un po' di silenzio. Inoltre, verso le ore 12.00, la Mazzola avrebbe assistito ad una scena analoga, ove, però, l’uomo calvo era trascinato a spalla da due persone, e, contemporaneamente si sarebbe udita prima una donna in lacrime, poi un’ultima raffica di mitra[88].
  • Nel 2005, Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina legale nell'Università di Torino, effettuò un riesame della necroscopia del 1945 sul cadavere dell’ex duce, e uno studio computerizzato sulle fotografie e sulle riprese cinematografiche dei corpi sospesi al traliccio di Piazzale Loreto e sul tavolo dell’obitorio di Milano, sulle armi impiegate e i bossoli rinvenuti, nonché sulle cartelle cliniche di Mussolini in vita.
Tale indagine ha condotto l’anatomopatologo torinese ad affermare che la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non sarebbe determinante in rapporto alla individuazione dell’orario dell’uccisione, in quanto risulta senza ombra di dubbio che il capo del fascismo fosse sofferente di ulcera ed osservasse da anni una dieta tale da permettere al suo stomaco di svuotarsi del cibo in un paio d’ore circa. Inoltre il docente universitario smentisce lo studio del dr. Alessiani, sostenendo che al momento dello scatto delle foto e delle riprese in Piazzale Loreto, la rigidità del corpo dell’ex duce fosse ancora nella fase iniziale, a dimostrazione di un orario del decesso non anteriore alle 16.00-16.30 del giorno precedente, coincidente con quello della versione ufficiale fornita da Walter Audisio.
Inoltre, sulla base del posizionamento dei fori di entrata e di uscita nei due cadaveri, rilevata in base alle foto delle salme e alla necroscopia Cattabeni, il prof. Baima Bollone riterrebbe logico presumere che “l’azione determinante i due decessi sia stata effettuata da due tiratori, dei quali il primo posto frontalmente al bersaglio costituito dalla Petacci e da Mussolini, affiancati e leggermente sopravanzatisi l’una all’altro, e il secondo lateralmente”. Quest’ultima asserzione, pur non entrando nel merito dell'identificazione dei due tiratori, sembra avvalorare la meccanica della vicenda riportata nelle dichiarazioni del partigiano “Sandrino” al Corriere d'Informazione, nel 1945[89].
  • Infine, nel 2009, i ricercatori Cavalleri, Giannantoni e Cereghino, effettuarono un attento esame dei documenti dei servizi segreti americani degli anni 1945 e 1946, desecretati dall'amministrazione Clinton. Dall'esame dei tre ricercatori sono emersi due rapporti segreti dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, il primo datato ai primi di maggio del 1945 ed il secondo il 30 maggio 1945. L'agente americano, dopo aver ascoltato il resoconto di alcuni "testimoni oculari"[90], indica esattamente orario e luogo della fucilazione (poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945, davanti a Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra) esattamente coincidenti con quelli derivati dalla versione storica. I due rapporti, peraltro, non sono perfettamente chiari per quanto riguarda l'identificazione degli autori.
Secondo il rapporto del 30 maggio - più esauriente del precedente - la fucilazione sarebbe stata condotta da tre uomini: un "capo partigiano", (che gli autori della ricerca hanno identificato in Aldo Lampredi), un uomo in vestito civile (identificato dall'agente OSS nel "colonnello Valerio"), e un uomo in divisa da partigiano (Michele Moretti). I colpi sparati dal "civile", armato di revolver, avrebbero raggiunto obliquamente Mussolini sulla schiena [91] e, subito dopo, l'uomo in divisa da partigiano gli avrebbe sparato direttamente al petto con un mitra. Poi sarebbe stata la volta della Petacci, raggiunta da diversi colpi al petto. Il precedente rapporto dei primi di maggio, tuttavia, non descrive il "colonello Valerio" come indossante un vestito civile, ma una divisa da partigiano color mattone con i gradi di colonnello sulla bustina. Ciò è conforme con tutte le descrizioni di Audisio-"Valerio", comunemente fornite dai testimoni.
Il rapporto del 30 maggio, inoltre, conclude che, in un secondo momento, sarebbe intervenuto nell'esecuzione un partigiano locale (identificato in Luigi Canali, accreditato dall'agente statunitense come uno dei suoi confidenti), il quale, dopo esser stato fatto avvicinare dal "capo partigiano", avrebbe scaricato due ultimi colpi con la sua pistola sul corpo del duce, perché ancora vivo[92]. L'introduzione di un terzo "tiratore" nella vicenda, contrasta con la meccanica dell'azione emersa dai rilievi del prof. Baima Bollone[89].

Ipotesi alternative sull'identità di "Valerio"

  • Alcuni autori[93][94]) hanno identificato la figura del "colonnello Valerio" con Luigi Longo "Gallo", comandante generale delle Brigate Garibaldi e futuro segretario nazionale del P.C.I.. In realtà la presenza di Longo a Mezzegra al momento della fucilazione di Mussolini, avvenuta intorno alle ore 16.00, deve escludersi, dato che, come è confermato dalle numerose fotografie dell'evento che lo ritraggono[95][96], nel corso del pomeriggio del 28 aprile 1945, il medesimo era presente in Piazza Duomo a Milano alla manifestazione conclusiva della grande sfilata, partita alle ore 15.00, dei garibaldini della Valsesia e della Valdossola guidati da Cino Moscatelli.
La sostenibilità dell'identificazione di "Valerio" con Longo, pertanto, è possibile solo anticipando la fucilazione nella tarda mattinata del 28 aprile e introducendo l'ulteriore tesi di una seconda fucilazione dei cadaveri nel pomeriggio; anche in tal caso, inoltre, non sarebbe chiara l'identità dell'autore della fucilazione delle 16.00-16.30 e, soprattutto, di colui che, tra le 17.00 e le 18.00 del pomeriggio medesimo si è ripresentato a Dongo, come "colonnello Valerio", per fucilare i quindici prigionieri catturati insieme all'ex duce e alla Petacci. Né si comprende per quale motivo il partigiano Urbano Lazzaro "Bill", colui che arrestò Mussolini il pomeriggio del 27 aprile, si sia pronunciato a favore dell'identificazione di "Valerio" con Longo soltanto a partire dal 1993[97] e non abbia testimoniato ciò al processo del 1957, di cui è cenno in premessa.
All'udienza del 24 maggio 1957, inoltre, i componenti del CLN Oscar Sforni e Cosimo De Angelis, hanno confermato che a Como, nella tarda mattinata del 28 aprile 1945, Walter Audisio si era presentato come "colonnello Valerio", e che poi lo seguirono a Dongo, dove lo raggiunsero intorno alle 14.00-14.10[98]. Anche anticipando la fucilazione di Mussolini - dunque - nella tarda mattinata del 28 aprile il "colonnello Valerio" non poteva trovarsi a Mezzegra.
  • Nell'intervista al Corriere d'Informazione del 22 ottobre 1945, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", dichiarò di aver visto il “colonnello Valerio” sparare a Benito Mussolini con una pistola, senza rivelarne l’identità [45]. E’ appurato, peraltro, che, al momento dell’esecuzione, il possessore di un arma simile – ed esattamente una pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm[53] fosse Aldo Lampredi e non Walter Audisio, che invece imbracciava un mitra Thompson [54].
Anche il rapporto segreto datato 30 maggio 1945 dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, sembrerebbe indicare il “colonnello Valerio” nella persona di Aldo Lampredi, raffigurandolo in un uomo in vestito civile, armato di revolver. Aldo Lampredi, infatti – come riferiscono concordemente le testimonianze raccolte a Milano, a Como e a Dongo - il 28 aprile 1945 indossava un impermeabile bianco, mentre Walter Audisio aveva indosso una divisa da partigiano color kaki o rosso-mattone con i gradi di colonnello.
L’ipotesi che a uccidere Mussolini sia stato Aldo Lampredi e non Walter Audisio è stata addotta nel 1997 da Massimo Caprara, nel volume “Quando le Botteghe erano oscure”, pur senza citare il nome di battaglia dell’autore dell’esecuzione. Caprara, già segretario particolare di Palmiro Togliatti e in seguito uscito dal PCI per fondare il gruppo del “Manifesto”, dichiara di aver raccolto, in proposito, le confidenze dello stesso Togliatti e di Celeste Negarville, all’epoca direttore dell’Unità. A domanda, sembra che Togliatti abbia risposto al suo segretario: “No, non è lui (Audisio, n.d.r.). Abbiamo deciso di coprire l’autore dell’esecuzione di Mussolini. L’uomo che ha sparato è Lampredi” [99].
Successivamente Negarville confermò l’attribuzione dell’esecuzione a Lampredi, svelando anche i retroscena dell’insabbiamento: “(Togliatti) si premurò d’una cosa soprattutto: proteggere il funzionario kominternista che è Lampredi. Non solo sottraendolo alla curiosità della gente, ma salvandolo da una auto-esaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all’improvviso il vendicatore-eroe, dopo una vita grigia e ingrata. Lui ha sparato a Mussolini. Con la Petacci non c’entra. Si limitò a prelevare Mussolini da casa De Maria e a portarlo con lo stivale rotto fino al cancello di Villa Belmonte. Queste cose le riferì a Luigi Longo il responsabile di partito per tutta l’operazione: Dante Gorreri[100].

La fucilazione dei gerarchi


Elenco dei gerarchi fucilati, firmato da "Magnoli" (Walter Audisio) e "Guido Conti" (Aldo Lampredi)

I gerarchi allineati sul lungolago ricevono il conforto religioso prima della fucilazione
Partito da Giulino, verso le ore 17:00 del 28 aprile Audisio è a Dongo per dirigere la fucilazione degli altri gerarchi fascisti che nel frattempo erano stati radunati nel municipio. I nominativi erano stati indicati da "Valerio" stesso prima di partire per la Tremezzina osservando la lista dei prigionieri italiani catturati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici". Si tratta di:
Ad essi va aggiunto anche Marcello Petacci, che al momento dell'arresto si spacciava per console spagnolo. Audisio, conoscendo il castigliano, aveva smascherato subito il millantatore e, scambiandolo per Vittorio Mussolini aveva ordinato la sua fucilazione. Però Urbano Lazzaro "Bill", scoprendo finalmente la sua vera identità, l'aveva sospesa.
Venuto a conoscenza dei modi sbrigativi del Colonnello Valerio, il sindaco del paese avvocato Giuseppe Rubini, figlio di Giulio Rubini, protesta fortemente opponendosi e cercando di porre il veto. Non riuscendo ad ottenere risposta dà le dimissioni, ritira dalla finestra del municipio la bandiera esposta e si rinchiude in casa.
Alle 17.48 vengono allineati contro la ringhiera metallica del lungolago del paese, con il viso verso il lago e le spalle al plotone d'esecuzione e, dopo aver ricevuto una comune assoluzione da padre Ferrari Accursio del vicino santuario francescano della "Madonna delle lacrime", a cui "Valerio" ha concesso tre minuti per fornire i conforti religiosi ai condannati, vengono giustiziati.
Viene respinta la richiesta di Barracu di non essere fucilato alla schiena, il plotone di esecuzione è comandato da Alfredo Mordini "Riccardo", già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola[101].
Il numero dei fucilati eguaglia quello dei partigiani, che, per rappresaglia, il 10 agosto 1944, i tedeschi avevano fatto fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano, ciò dimostrerebbe l'intenzione di voler vendicare quella strage.
Finito il compito del plotone, da ogni parte si comincia a fare fuoco sui corpi a terra e per aria, un paio di minuti di baccano infernale in una travolgente follia collettiva: spari, urla, fuggi fuggi, odore di zolfo e di sangue, qualcuno rimane ferito, poi, nel silenzio, gli spari dei colpi di grazia[102].
Marcello Petacci è stato fucilato dopo gli altri, perché i gerarchi non lo consideravano dei loro. Anzi, al momento dell'allineamento, lo insultarono dicendo che era un "ruffiano"[103] e chiesero un'esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Però, arrivato il suo turno, riuscì a fuggire per le viuzze del paese e a gettarsi poi nelle fredde acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono.

Traversie delle salme

Piazzale Loreto


I corpi di Mussolini e Claretta Petacci adagiati a terra in piazzale Loreto, è visibile il gagliardetto posto fra le mani di Mussolini

I corpi di Mussolini (secondo da sinistra) e di Petacci (riconoscibile dalla gonna) esposti a Piazzale Loreto. Il primo cadavere a sinistra è di Paolo Zerbino. Gli ultimi due a destra sono Pavolini e Starace.

Fotografia di Starace, posto di schiena al plotone d'esecuzione, pochi istanti prima della morte.

Il distributore visto dalla prospettiva in cui si trovò Starace quando venne fucilato
A Dongo tutti i 16 cadaveri dei fucilati vengono caricati su un camion, sopra di loro viene steso un telo su cui siederanno i partigiani durante il viaggio. Il veicolo parte per Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano per recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci lasciati nel frattempo sotto la pioggia[104]. Durante il viaggio di ritorno la colonna è costretta a fermarsi in diversi posti di blocco partigiani che creano diversi problemi: in particolare a Milano, in via Fabio Filzi (vicino gli edifici della Pirelli) durante un controllo operato da una formazione delle Brigate Garibaldi vi sono momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutano di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiano sino all'intervento del comando generale che permette il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.
Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunge in Piazzale Loreto, meta non casuale o improvvisata, ma a lungo meditata[105] per il suo valore simbolico. Qui Audisio decide di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 erano state abbandonate in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
In piazzale Loreto furono portati diciotto cadaveri: Benito Mussolini, Clara Petacci e i sedici giustiziati a Dongo.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e li sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri, si compivano gesti di bestialità. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra[106][107]. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, il misero pasto di cinque anni di guerra, a Mussolini per dileggio venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci, altri compirono gesti ancora più avvilenti. Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.
A quel punto gli stessi pompieri trassero via dal centro della piazza i sette cadaveri più noti, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil (poi Esso) che si trovava all'angolo fra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi a testa in giù[108][106][109]. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci -alla quale, essendo privata delle mutande, venne dapprima fermata la gonna con una spilla ed infine assicurata meglio con la cintura che il cappellano partigiano don Pollarolo si sfilò appositamente-[110], di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino, di Ferdinando Mezzasoma, di Marcello Petacci e di Francesco Maria Barracu[111] il cui cadavere però cade subito a terra e verrà sostituito con quello di Achille Starace[112].
Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e nel corso della mattinata arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme ad una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani[113] dell'agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l'eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace[114]. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato venendo vendute come un ricercato "souvenir di un momento vissuto", bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l'immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico[115].
Verso mezzogiorno, con una camionetta, viene condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito nazionale fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, frettolosamente giudicato in un'aula del vicino Politecnico, e fucilato, da un plotone improvvisato di partigiani,[116] alla schiena sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.
Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento "Canevari" della brigata "Crespi", su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri[117] trasportandoli nel vicino obitorio di piazzale Gorini.
In serata, il CLNAI riunito emanava una comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell'esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l'avvento di una nuova Italia, fondata sull'alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura[118].

L'autopsia di Mussolini


Richiesta del comando USA di ricevere un frammento del cervello (in inglese e italiano) con risposta positiva, ricevuta della consegna e richiesta del Col. Poletti delle copie dei verbali

Mussolini e la Petacci all'obitorio, prima dell'autopsia
Il giorno seguente alle ore 7,30 presso il civico obitorio dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano in via Ponzio il professor Mario Cattabeni[119] sotto la sorveglianza del generale medico "Guido"[120] effettuò l'autopsia sul solo corpo di Mussolini[121]. Il riscontro diagnostico riscontrò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte ed individuò come causa mortis la recisione dell'aorta da parte di un proiettile. L'autopsia venne eseguita, scrisse Cattabeni, "in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali" entro "una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo".
Prima e dopo l'autopsia furono scattate numerose fotografie, sia mettendo macabramente in posa i cadaveri di Mussolini a Petacci abbracciati, sia dell'equipe forense a fianco del cadavere, immagini del cadavere svestito col torace ricucito a fine autopsia e infine dei corpi deposti entro le casse di legno usate come bare.
Qualche giorno dopo l'autopsia, il 4 maggio le autorità militari alleati richiesero al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, a titolo di favore, un campione di tessuto cerebrale del defunto da inviare a Wilfred Overholser direttore dell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington d.c., garantendo che verrà utilizzato per scopi scientifici ed i risultati della sua analisi non saranno soggetti a pubblicazione[122], lo scopo di "medical intelligence" escludente pubblicazioni sarà ribadito nella ricevuta rilasciata il 24 maggio alla consegna del campione.
Il 9 giugno il colonnello Poletti richiese infine due copie autenticate del referto dell'autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.

La tomba violata di Mussolini, sono visibili gli attrezzi: badile, piccone e piede di porco abbandonati in loco dai trafugatori

Interno della cripta Mussolini nel cimitero di San Cassiano a Predappio
Nel novembre 2009 alcuni vetrini istologici con sezioni del cervello, vennero posti in vendita su E-bay, con una base d'asta di 15000 euro, da un collezionista italiano di cimeli storici, che li aveva avuti in dono da un tecnico analista, assistente di Cattabeni incaricato di preparare i reperti nel maggio 1945[123]. L'offerta di vendita, fu ritirata dal sito dopo poche ore, in quanto contraria alla policy del sito che vieta la vendita di materiale organico umano[124].

La sepoltura di Mussolini

La salma di Mussolini fu seppellita anonima nel cimitero Maggiore di Milano. Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne meta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.
La notte tra il 22 aprile e il 23 aprile 1946, all'approssimarsi del primo anniversario della sua morte, tre fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi, facenti parte del Partito Democratico Fascista, ne trafugarono la salma. In due lettere all'Avanti! e all'Unità il gruppo comunicò che il partito fascista, non avendo ottenuto risposta alle richieste di una sepoltura di Mussolini, aveva deciso di prendere in custodia la salma. Si scatenò la caccia alla salma, che la voce popolare chiamò il salmone[125].
Si sospettò anche che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini, i più probabili diretti interessati, erano, ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Il 7 maggio, dopo varie peripezie, i trafugatori decisero di consegnarla ai frati minori dell'Angelicum di Milano nelle mani dei padri Alberto Parini ed Enrico Zucca[125].
La salma rimase nascosta nel convento per qualche tempo fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile rifiuto a collaborare adducendo il "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta. Si arrivò ad una soluzione anche grazie all'interessamento di Alcide De Gasperi e del Papa: il 12 agosto 1946 il cadavere venne restituito al questore Vincenzo Agnesina[125], ma si dovette eseguire un ulteriore esame necroscopico per confermare l'identità dei resti[126].
Il 30 agosto 1957, durante il governo Zoli, la cui famiglia era originaria di Predappio, ed il cui governo in parlamento abbisognava dell'appoggio esterno dei deputati missini tra cui il Leccisi, la salma di Mussolini, segretamente conservata nel convento dei Cappuccini di Cerro Maggiore, viene riconsegnata alla vedova che ne aveva richiesta la restituzione alla famiglia più volte nel corso degli anni[127]. In questa occasione anche il cervello che era stato prelevato durante l'autopsia e conservato in formalina nell'Istituto di medicina legale di Milano viene restituito[128].
Tutti i resti furono finalmente seppelliti il 1º settembre, secondo la volontà del defunto, nel cimitero di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio, dove ora si trovano

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